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Speleologia e inconscio

Speleologia e inconscio: Freud, Lacan e la luce del linguaggio

“Mi sento di andar per grotte, e lei laggiù è come un Virgilio.”
Così mi ha detto un paziente.

Parole che hanno toccato qualcosa della mia esperienza di speleologa, risuonando come una eco. 
Queste parole, insieme all’incontro particolare con un libro, Freud e lo speleologo di Stefano Gambari (2021), donatomi da una persona e proveniente dall’ultimo Raduno nazionale di speleologia a Volta Mantovana, mi hanno indotta ad una riflessione.

Freud e lo speleologo

Ogni percorso analitico comincia con una discesa. Dico discesa perché, generalmente, si inizia un percorso quando si è “giù”, si è caduti, a terra. Quando si soffre e si avverte che qualcosa non trova più aria né luce.

Non si giunge al chiarore senza attraversare la notte dell’inferno interiore — quella ‘notte del Getsemani’ di evangelica memoria (ripresa da Recalcati come metafora dell’umana inermità1) in cui tutto sembra sospeso.

L’immagine evocata dal mio paziente rimanda a una simbologia antica, intrecciata alla letteratura, alla religione, all’alchimia e alla poesia. Dante è forse il sommo interprete di questa simbologia: il poeta che, nella selva oscura, intraprende un viaggio tra ombre e smarrimenti. Viaggio che possiamo accostare a quello nell’inconscio, dove passioni, colpe e dolori si ripetono (“per me si va nell’etterno dolore”2) — nigredo alchemica. Poi viene il purgatorio della parola che trasla e purifica — albedo — fino al paradiso, come riconciliazione e possibilità di abitare il proprio desiderio — rubedo.

Virgilio, in questo cammino, è il simbolo di qualcuno che accompagna, orienta la lampada della parola, senza pretendere di conoscerne il mistero. Virgilio è semplicemente qualcuno che c’è: una presenza che guida Dante nell’esplorazione sotterranea, gettando luce su cavità che egli stesso non conosce.

Eppure, quando si è nell’inferno — come in grotta — si è soli. Avanzare richiede la corda, gli strumenti, il respiro. Nessuno può fare quel passo al nostro posto, così come nel percorso analitico nessuno può farlo. Però qualcuno c’è: qualcuno che ascolta.

La psicoanalisi può essere pensata come una via sotterranea, una via intricata, insidiosa, ma anche generativa, in cui l’analista, come Virgilio, come lo speleologo, getta un fascio di luce negli anfratti del discorso del paziente, sottolineando parole qua e là, man mano che il discorso si dipana. Getta una luce che si muove a disegnare nuove configurazioni, nuovi racconti di sé. È la dinamica del transfert: un gioco di riflessi, dove la luce non appartiene a nessuno, ma si fa spazio tra.

Ogni passo nella grotta è insieme un passo nel buio e un atto di fiducia.

La speleologia è lo studio scientifico delle grotte e dei fenomeni carsici. Ma, più in profondità, è un’esperienza di esplorazione, di rischio, di scoperta: un entrare in spazi “altri”, non quotidiani, che chiedono adattamento e presenza. Una scoperta anche del proprio limite. La psicoanalisi, allo stesso modo, esplora territori che con Freud possiamo chiamare sotterranei, territori in cui siamo messi di fronte al nostro limite. Il padre della psicoanalisi utilizza metafore topografiche per descrivere quegli spazi psichici che sfuggono alla vista. L’inconscio è la parte sommersa di un iceberg, è ciò che non si vede, proveniente “dalle profondità della psiche”3.

Iceberg Freud

In una lettera a Fliess (lettera del 14 aprile 1898), Freud descrive la visita alla grotta di Divaška, in Slovenia, accompagnato dall’esploratore Žiberna, in cui riconobbe un conquistador nevrotico4. Questa esperienza fu sicuramente per lui motivo di riflessione per l’inconscio come territorio da scavare, dove rinvenire resti di un passato psichico. Fare analisi significa trattenersi in se stessi, scendere e far riaffiorare ciò che è nascosto – in bella vista aggiungerei, anticipando il discorso di Jacques Lacan – riconoscere il simbolico, attraversare fantasmi e traumi.

La grotta nella prospettiva freudiana diventa una potente immagine dell’inconscio: luogo di discesa, scoperta, ombra e trasformazione. E come nella grotta, anche nell’analisi il tempo e lo spazio si deformano. In essa si procede lentamente, a tentoni, nella fiducia che ogni piccola fenditura possa aprire un nuovo passaggio. La luce non cancella certo il buio: lo rende abitabile.

Eppure, se seguiamo Lacan, qualcosa di questa metafora subisce uno spostamento. Se la grotta freudiana può essere pensata come una discesa nel sotterraneo della psiche (anche in Jung la caverna rimanda a un’immagine di interiorità), nell’insegnamento di Lacan la caverna compie una torsione.

Non è più uno spazio di introspezione, una profondità della psiche: la grotta diventa un buco topologico nel quale si articola il rapporto del soggetto con l’Altro.

La caverna lacaniana si può pensare come un vuoto strutturale che fonda il soggetto.

La grotta diventa così un varco tra i significanti, una sorta di cavità del dire.

L’inconscio, per Lacan, non è un luogo nascosto e profondo in cui scendere, non è un sotterraneo psichico, ma è tutto in superficie, fuori, esterno all’uomo. “L’inconscio è il discorso dell’Altro”5. Per cui, seguendo Lacan, non c’è un fondo da esplorare: non si tratta di dissotterrare ciò che sta sotto o dragare un luogo, ma piuttosto di ascoltare un linguaggio.

C’è qualcosa che affiora nel linguaggio, che si scrive nel suo bordo: nei lapsus, nei sogni, nei silenzi e negli inciampi del dire, che va ascoltato. L’inconscio lacaniano si fa udire nella parola stessa del soggetto: è una struttura di parole in bella vista, si muove tra le pieghe del discorso. Un discorso che parla attraverso di noi e che l’analisi invita a leggere. È esposto, anche se velato, opaco, tangente alla superficie del dire.

Nella prospettiva di Lacan, dentro e fuori non si oppongono ma si intrecciano – come nelle superfici del nastro di Möbius – delineando un luogo che non è interiore ma “estimo”. La grotta, quindi, non tanto come un “dentro” psichico, ma come una cavità del linguaggio stesso: uno spazio risonante, fatto di echi, di ripetizioni, di deviazioni.

Non si scende dentro di sé, ma si entra nella propria parola, si eredita, si gioca con i suoi residui. 
In questa nuova prospettiva, la discesa non è verticale, ma piuttosto obliqua, non è più topografica ma simbolica: un perdersi tra i significanti, un lasciarsi guidare da quella luce mobile che nasce tra analista e analizzante — là dove qualcosa si dice da sé, senza sapere da dove viene. Grotta e superficie possono così non opporsi del tutto. La profondità che si scopre non è sotto, ma tra le parole, nel modo in cui una parola tocca, risuona, sposta.

Le parole del mio paziente hanno comunque una loro forza immaginifica, rivelando qualcosa di vero. Esse a mio parere mostrano quanto, per chi soffre, l’esperienza soggettiva dell’inconscio possa apparire, immaginariamente, come un “nascosto” che chiede luce, mostrando l’anfratto buio della notte del Getsemani. La sensazione di luogo oscuro da esplorare non contraddice ma può tradurre in immagine ciò che nel linguaggio si annoda e si opacizza.

La speleologia dell’anima non è un viaggio nelle viscere, in un segreto sepolto, ma un ascolto delle risonanze singolari del linguaggio. E la luce, come sempre in analisi, non viene dall’alto: emerge tra le parole, in ciò che tra esse vuole nascere. E forse è proprio lì, in quella sottile superficie del dire, che ciascuno può incontrare la propria ombra.

 

  1. Massimo Recalcati, La notte del Getsemani, Einaudi Editore, Torino, 2019
  2. Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, III, verso 2, p. 9, Letteratura Italiana Einaudi
  3. Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, L’inconscio e la coscienza. La realtà, Bollati Boringhieri, Torino, 2013
  4. Stefano Gambari, Freud e lo speleologo, Circolo Speleologico Romano Edizioni, Roma, p. 20
  5. Jacques Lacan, Il Seminario. Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2003, p. 28

* Fotografia di copertina Andrea Moretti, Grotta Grande del Vento, Frasassi